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mercoledì 19 gennaio 2011

homo faber ipsius fortunae

Mi è capitato di commentare un ‘post’ e di ingaggiare, senza volerlo, un dibattito  piuttosto serrato, con un altro commentatore, molto appassionato ma assolutamente garbato e corretto,  che sostanzialmente si stupiva, o forse inorridiva, per la mia scarsa energia nel commentare il panorama politico del nostro paese.  ( http://sasso.blogautore.repubblica.it/2011/01/14/silenzi/    biname scrive:18 gennaio 2011 alle 01:55 )
Trascrivo qui la mia risposta e alcune riflessioni sul tema.

Caro biname,
ho trovato molto bello e toccante il suo commento, pieno di liriche suggestioni sul paese che ambedue amiamo. È palpabile, anche,  la sua sofferenza per il clima in cui viviamo e mi sarebbe impossibile non rispettarla e comprenderla, anche se il mio sentire è, almeno in parte, diverso. Non che io - badi bene -  non trovi tutto quello che vedo indecoroso e volgare, proprio al pari di lei, ma c’è in me allo stesso tempo un’abitudine allo sguardo lungo sulle cose che mi viene dalla mia abitudine allo  studio della storia e di un vissuto del passato umano non solo italiano ed europeo. Tutto mi sembra grave ma, nello stesso tempo, quasi naturale,  negli alti bassi della storia. Tutto si relativizza quando viene collocato nel contesto di un’umanità che da millenni si agita in un susseguirsi di ascese e catastrofi, orribili, assolutamente orribili mentre si vivono (guerre, genocidi, schiavitù, sfruttamenti di vario genere) ma prevedibili quanto inevitabili nella valutazione dello storico che le guarda con appassionato distacco. Sì, “appassionato distacco”, un ossimoro, d’accordo, ma è così. Perché questo accade a chi non può far a meno di vedere contemporaneamente i momenti di crisi e disfacimento di cui la storia dell’umanità è piena e quelli  di svolta positiva (pace di Westfalia, fine della schiavitù,  Rinascimento, Illuminismo, fine della II guerra mondiale, ecc.) che sempre seguono alle prime, ma in luoghi e modi diversi e inaspettati.

Ma allora che fare?  Guardare inerti al disfacimento che è sotto i nostri occhi? Indignarsi? come ingiunge il nuovo best-seller francese di Stéphane Hessel?  È possibile.  È quello che sta facendo da due decenni, con toni sempre crescenti, una certa parte del paese.  Mi chiedo a cosa sia servito, a cosa stia servendo, a cosa servirebbe la mia singola voce, per quanto appassionata e impegnata riuscisse a essere.
Ma mi chiedo contemporaneamente se ciò che rende veramente grave la situazione non sia altrove, in cose che stanno sotto gli occhi di tutti, ma che tutti, catalizzati intorno al debordare dei temi politico-giuridici-morali, non vedono. 
Un esempio. La mia attenzione è stata attratta, un giorno, da un scenetta in un normale spazio pubblico, forse uno schopping center: una giovane coppia con il figlioletto al seguito (4/5 anni), si stava lamentando  del funzionamento dell’organizzazione - forse una coda d’attesa, non ricordo bene, niente di importante comunque. E subito, il bimbo, per niente personalmente toccato  e chiaramente ignaro di quale fosse il problema, ha aggiunto  la sua vocina con tono adeguatamente lamentoso; non un ragionamento, ma un mugugnetto che chiaramente, nel suo intento, voleva significare un’attiva affettuosa partecipazione alla vita di quelli cui voleva bene.
Ebbene improvvisamente ho creduto di capire dove sta una delle trappole per il nostro futuro.  Stiamo allevando, senza rendercene conto, per imitazione (che è la forma più incisiva di educazione), e non da ora, una generazione, anzi più generazioni ormai,  di giovani con una mente precocemente  strutturata alla lamentela, alla richiesta, all’attesa; una mente volta e vedere, anzi a cercare, cosa non va intorno a sé. Una mente che, concentrata a scrutare ciò che manca o è inadeguato al suo benessere e alle sue possibilità di crescita, non ha né il tempo, né l’attenzione, né l’energia per cercare, immaginare e creare opportunità alternative. Non ha, né pensa di avere in sé almeno una buona parte del proprio futuro. È il contrario, proprio l’opposto, del pensiero base del nostro periodo rinascimentale,  homo faber, che fu espressione cara anche all’antica Roma nella sua fase ascendente, ma che è stato anche il nocciolo del ‘sogno americano’ nella’America della golden age.
Concezione della vita, come si vede,  di civiltà in crescita. Cosa produrrà la concezione opposta?
Nel nostro caso, non parlo neanche di quell’atteggiamento che Kennedy invocava quando diceva “Non chiederti che cosa fa lo stato per te, ma chiediti cosa fai tu per lo stato.” Che pur mi sembra sacrosanto, ma penso a quello spirito d’iniziativa che in passato ha fatto degli italiani un popolo di navigatori, di grandi commercianti, di inventori, di artisti.

Io non vedo in tutte queste migliaia o milioni di commenti, denunce, invettive contro politica e dintorni alcuna idea originale. Tutti si affannano a dire, in modi più o meno diversi, con maggiore o minore foga, con un’inarrestabile escalation nel linguaggio e nelle argomentazioni, le stesse cose.
Nessuno, o raramente qualcuno,  guarda oltre al proprio naso. Eppure Berlusconi passerà nel giro di qualche anno, ma quello da cui non avremo saputo salvaguardarci durante questo periodo lo pagheremo a lungo. Sarà come per il ’68, che avendo avuto in sé dei lati sicuramente positivi, è stato accolto e considerato in toto  un bene intoccabile, col risultato che contrariamente a quello che si rischia di fare di solito, abbiamo conservato con cura più che il bambino tutta l’acqua sporca. E il risultato si vede.

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